di Alessandro Della Casa per OIKOS
– Un libro di Francesco Colafemmina dissacra il mito del “governo del popolo” e spiega come il coinvolgimento della massa popolare nella gestione del potere, nell’Atene antica, celasse l’asservimento delle classi subalterne agli interessi di una “élite” plutocratica, demagogica e clientelare.
Quindici anni fa, in quello che è ormai divenuto un classico della politologia, Colin Crouch ha sostenuto che il moderno sistema democratico stava progressivamente mutando in una postdemocrazia. Sull’ideale di una partecipazione attiva che, tramite il voto e la discussione attuata anche attraverso i corpi intermedi, avrebbe dovuto definire le priorità della vita pubblica, sempre più si imponeva la realtà di una massa di cittadini apatici e acquiescenti, di un dibattito limitato e determinato dagli “esperti nelle tecniche di persuasione” e di una politica decisa “in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”.
Nel volume La democrazia ad Atene. Storia di un mito (prefazione di Spartaco Pupo, Passaggio al Bosco, 2020), che sarà presentato oggi pomeriggio ad Acquaviva delle Fonti, alla presenza del prefatore e altri studiosi, Francesco Colafemmina dimostra che l’origine di questo processo si ritrova sin dagli esordi della democrazia antica, ripercorrendone l’evoluzione dall’epoca di Solone a quella di Pericle grazie a un’ampia mole di riferimenti. Punto di avvio dell’indagine è una riflessione contenuta in quella “denuncia dei limiti intrinseci dell’ideologia democratica” che è la pseudosenofontea Costituzione degli Ateniesi (meritoriamente riproposta e commentata in appendice al volume), scritta a ridosso della guerra del Peloponneso: “Ma io la democrazia a questo popolo la perdono: sempre si perdona a chi cerca di far del bene a se stesso. Chi invece pur non essendo del popolo, ha scelto di vivere in una città governata dal popolo piuttosto che in una governata da un gruppo ristretto di uomini, si è preparato a commettere qualche ingiustizia e sa che è più facile per il malvagio nascondersi in una città governata dal popolo che sotto un’oligarchia”.

L’anonimo compilatore dell’Athenàion Politéia testimonierebbe che la nascita stessa della democrazia scaturisce dall’opera di élites che la riconobbero quale regime “più conforme alle loro ingiustizie”. Piuttosto che dal conflitto tra popolo ed élite, dunque, la trasformazione nell’Atene del VI-V secolo a.C. sarebbe prodotta dall’emergere di un’aristocrazia trasgressiva votata al commercio che mira a soppiantare la vecchia aristocrazia terriera.
“Paradossalmente”, scrive Colafemmina, “la reazione agli squilibri interni alla classe dominante fu proprio quella di spostare sul démos il potere di frenare le derive personalistiche e potenzialmente tiranniche intra-elitarie, sfruttando la naturale avversione del popolo nei riguardi dell’antica nobiltà terriera”. In quest’ottica, il coinvolgimento, limitato prevalentemente a funzioni burocratiche e contrassegnato da dinamiche clientelari, della massa popolare nella gestione dello Stato celerebbe l’asservimento delle classi subalterne agli interessi della nuova élite “plutocratica” e “demagogica”, per usare le categorie paretiane richiamate nel saggio. E perché il “dominio oligarchico” (una forma di inverted totalitarianism, ricorda l’autore utilizzando l’espressione di Sheldon Wolin) fosse conservato, si rendeva necessario impostare la coesione tra le classi su basi culturali ed etiche differenti da quelle che ne avevano costituito il cemento fino ad allora; così da favorire la politica imperialistica che avrebbe trasformato Atene in una potenza talassocratica e accresciuto il benessere nella pólis.
A dispiegarsi progressivamente tra l’arcontato di Solone e l’età periclea sarebbe, quindi, una “trasvalutazione dei valori”: lo “scetticismo nei riguardi del divino”, la “pervicace volontà elitaria di fare tabula rasa di tradizioni, cultura e costumi patri, la parcellizzazione popolare dell’identità che trascolorava nell’indifferenza” rovesciavano i princìpi del precedente ordine aristocratico. L’edificazione di una “rinnovata identità culturale e spirituale” rispondeva pienamente all’esigenza ateniese di affermare la propria egemonia politica, militare e commerciale sulle póleis al di fuori dell’Attica e tradurla in arché. In questo senso, è emblematico il celebre “dialogo dei Meli”, riportato da Tucidide, che, se da un lato esemplifica “lo scontro ideologico fra il totalitarismo democratico” degli ateniesi e “i valori tradizionali panellenici” ancora incarnati dai meli, nonché la divaricazione tra il realismo dei primi e l’idealismo dei secondi, testimonia platealmente anche la volontà degli Attici di affermare la propria filosofia e la propria visione del mondo.
Eppure tale mutazione aveva corrotto gli “equilibri sociali e culturali” della città, svilendo e adulterando gli stessi concetti democratici. A differenza di quanto era ancora al tempo di Solone e Clistene, avrebbe annotato Isocrate, la democrazia era poi stata convertita in sfrenatezza, la libertà interpretata come illegalità, il diritto di parola come parlare a ruota libera. Per questo il progetto illuminato di Pericle, minato da una hýbris antropoteistica che perde il senso del limite, si era inevitabilmente risolto in un fallimento. E tutto ciò molto aveva a che fare con il binomio inscindibile tra ideologia democratica e imperialismo marittimo.
Riprendendo le riflessioni di Carl Schmitt, Colafemmina ci spiega che l’evoluzione del sistema democratico va intesa nella rivoluzione spaziale comportata dal transito dalla terra al mare, nell’allontanamento della casa per la nave, nell’abbandono della stabilità per il movimento, da parte dell’uomo che, nondimeno, non può obliterare la sua natura terranea: “Così, se l’uomo di terra sarà collegato all’identità, al recinto delle mura, dello spazio definito che diventa anche spazio sacro (il témenos), l’uomo di mare farà proprio dell’aspetto indefinito e mutevole di tale elemento una nuova identità capace di modellarsi su molteplici relazioni, incontri e scambi; e obbligherà l’uomo di terra ad accettare la sua natura relativa o a soccombere. Allo stesso modo in cui l’uomo di terra, attraverso la guerra di conquista, impone la propria identità. In entrambi i casi, però, l’uomo nasce sulla terra, ma chi sceglie il mare da essa si allontana per sviluppare un nomos nuovo che nega il precedente”.

Ancora sulla scorta di Schmitt, il nesso tra imperialismo e democrazia si conferma nella vicenda dell’impero britannico (senza però qui dimenticare l’apporto decisivo della visione liberale), il cui testimone era stato raccolto dagli Stati Uniti, in un moto verso nuova rivoluzione spaziale incentrata sul cosmo (e pertanto a un nuovo ordinamento) innescato da un richiamo che– come nello schmittiano Dialogo sul nuovo spazio (1954) McFuture sembra ammettere candidamente di fronte allo storico Altmann e allo scienziato Neumeyer – non trova ragione altra da quella della tecnica scatenata. Il parallelismo tra le linee di tendenza delle democrazie antiche e di quelle contemporanee ci riconduce al punto da cui si è partiti e costituisce il motivo che sta al fondo del saggio, erudito ma non privo di una “dimensione paideutica”, di Colafemmina, che risulta tanto più stimolante e degno di attenzione per “comprendere realisticamente le dinamiche interne, gli esiti possibili a medio e lungo termine e, soprattutto”, come asserisce Spartaco Pupo nella sua prefazione, “la reale capacità di mantenere spazio di libertà e discussione pubblica aperta e pluralisticamente argomentata”, nel momento attuale; quando il passaggio verso la dimensione aerea dello spazio pare subire un’ulteriore accelerazione nel diffuso disinteresse per quella che il tellurico Altmann chiama la “grande domanda”.