La Democrazia di Atene

di Alessandra Iacono per Ereticamente

«Su tutta la terra

la componente migliore della società

si oppone alla democrazia»

 (Costituzione degli Ateniesi I,5)

«Amo con passione la libertà

ma non la democrazia»

(Alexis de Tocqueville)

Chiunque abbia avuto tra le mani (e davanti agli occhi) un qualsiasi manuale di storia greca sa bene che la democrazia ateniese non fu, mai, nemmeno sotto il Pericle del demagogico, populistico, propagandistico e abusatissimo “noi-ad-Atene-facciamo-così”, una dittatura del proletariato; tanto meno fu il regime liberal-social-popolare che il progressismo moderno vorrebbe, oggi, avocare a sé. Occorre allora dirlo, chiaro e tondo, una volta per tutte: la polis ateniese, così spesso idealizzata dai  demo-sfegatati, era in realtà un circolo molto esclusivo. Tratti distintivi e condiciones sine qua non per fregiarsi del titolo di polítes (cittadino) erano il possesso della terra, la militanza nell’esercito, l’isegoría – la libertà di parola in assemblea –, diritti riservati ai soli maschi adulti e liberi: donne, minori, stranieri e schiavi ne resteranno sempre esclusi. Lo storico Tucidide arriva a definire il governo pericleo “una demokratía solo di nome, ma di fatto il potere di un primo cittadino”.

«Nonostante si ricada spesso nella prospettiva ideologica dell’antichità ascrivendo Pericle alla fazione democratica e contrapponendogli trinariciuti oligarchi illiberali, va da sé che la sua azione fu un’ulteriore prova della natura elitaria del governo ateniese, al di là dell’assetto democratico dello Stato. Non era un regime nato ed alimentato dalla partecipazione attiva delle masse: non nasceva dal basso, ma fu sin dagli inizi una costruzione dall’alto». Ecco, dunque, l’essenza della democrazia ateniese, ben condensata in queste parole del classicista e filelleno Francesco Colafemmina, autore dello splendido saggio “La democrazia di Atene. Storia di un mito”, edito da Passaggio al Bosco.

Colafemmina, prendendo le mosse dalla Costituzione degli Ateniesi dello Pseudo-Senofonte – e propro qui ne propone una nuova traduzione –, ripercorre le tappe principali della sofisticata ed appassionante storia greca, attraverso l’analisi e l’evoluzione delle istituzioni politiche (politico-militar-religiose, per la precisione) elleniche. Una parabola politica che, stringi stringi, potrebbe ri[con]dursi all’eterna lotta dei principî aristocratici – tradizionali, sacrali, solari – contro gli impulsi democratici – pseudo-progressisti, umanitari, terreni –, e dunque tra le fazioni che di volta in volta incarnarono quei valori.

La dimensione sacrale del potere aristocratico contro la saggezza urania del potere delle legge, «un contrasto fra due economie e due stili di vita in opposizione tra loro che si traduce, da una parte in una esaltazione della vita dei padri, fatta di parsimonia e lavoro nei campi, e di quelle società che, come la spartana, continuavano a rappresentare un modello di tale vita (il miraggio spartiata), dall’altra l’esaltazione del consumismo, in un’economia di mercato che rompeva gli argini dell’Attica, stabiliva relazioni con il resto del mondo greco e non greco, e favoriva implicitamente in questa visione mercantilistica il superamento insieme dell’autarchia e del nazionalismo greco, e il superamento dell’antitesi fra Greco e barbaro, fra Greco e straniero […] questo contrasto fra due etiche, fra due visioni diverse del passato e del presente».

L’idea che i moderni si sono fatti dell’Atene del V secolo ruota intorno alla figura di Pericle, lo strategós che nell’immaginario collettivo è assurto a sovrano illuminato, progressista e paladino delle masse. Va fatta una premessa. Ad Atene non esistevano politici di professione. La strategía era una carica militare, gli strateghi comandanti militari, responsabili del destino della polis e dei suoi cittadini; se all’altezza del compito, essi potevano essere eletti per molti anni consecutivi, e chi ricopriva a lungo la strategia dominava di fatto la scena politica. Dunque  se permanessero dubbi in tal senso  l’Atene classica, sebbene democratica, è ancora una società basata sulla guerra,  conserva ancora un importante germe tradizionale nel suo ventre.

Ad ogni modo, con la primazia dello stratego Pericle rispetto alle lotte politiche del tempo, «la rottura della struttura aristocratica della paidéia, compiuta sotto la spinta della sofistica con il suo carico di scetticismo nei riguardi del divino e di esaltazione dell’individualismo […] finì col diventare il bagaglio insostituibile dell’ideologia democratica».

Con senno di poi e vocabolario moderno, potremmo quindi dire che la natura della democrazia ateniese era “transnazionale”, come lo erano gli esponenti della nuova cultura, sofisti e naturalisti; e persino “globalizzata”, anti-identitaria, avendo perso il suo centro ed essendosi allontanata dai valori religiosi tradizionali. Ed ecco una prima, grande differenza col mondo spartano.

Se, come sostiene l’Autore, nell’ambito del grande conflitto civile che li oppose agli Ateniesi, l’intento degli Spartani non era di contrapporre una visione alternativa, l’operato di Pericle testimonia, invece, oltre a una maggior consapevolezza dei rivolgimenti in atto, «lo scivolamento delle élites cittadine verso nuovi valori, nuovi modi di pensare in aperto contrasto col passato, sintetizzabili nel ripudio progressivo di forme di religiosità ufficiale e di etica tradizionale – un’etica rurale –, a favore di una sempre maggiore spregiudicatezza del pensiero e in nome di una fiducia nel progresso». Abbagliata dal “sol dell’avvenir”, «per quella generazione l’età dell’oro non era il paradiso perduto di un nebuloso passato, come aveva creduto Esiodo; per loro l’età dell’oro era nell’avvenire, e in un avvenire non troppo lontano»

Superata e “sconfitta” l’era dei tiranni, ad Atene permane lo spauracchio del potere autoritario di un singolo, un incubo ricorrente del démos, tanto che Aristofane si farà beffe di questa costante paura popolare della tirannide. Pericle, l’ “aristocratico trasgressivo che diede pieno compimento alla democrazia”, non era tuttavia uomo del popolo; anzi, la dimensione mimetica tra leader di estrazione niente affatto democratica e massa popolare è tratto saliente e contraddizione insita nella democrazia; senza dubbio in quella ateniese, di cui qui si ragiona, ma con buona probabilità nel concetto stesso di democrazia. Come bene illustra Colafemmina, l’accesso delle masse alla gestione dello Stato nasceva per concessione delle élites: «Solo le élites  razionaliste potevano illudersi di troncare la relazione fra il popolo e quell’insieme di credenze, riti e abitudini irrazionali sedimentate nell’identità ellenica […] La società democratica acquisisce come propria regola interna quella della sollecitazione e dell’ampliamento dei piaceri: è il meccanismo di controllo più efficace e meno costoso per ogni forma di élite dominante, cui fa seguito la crescita a dismisura della città rispetto alla campagna». Tuttavia, continua l’Autore, «certo, è espressione della retorica democratica l’identificazione dell’élite filodemocratica con “i più” e della ridotta élite anti-moderna con una oligarchia: in entrambi i casi a dividersi sul regime da promuovere erano sempre gli olígoi, non di certo le masse». Dunque, niente altro che un’illusione.

Da parte di questo popolo trasformato in massa, funzionale al regime democratico, non tarderà la reazione all’ “illuminismo” dell’età periclea: «è infatti tipico delle epoche ‘illuministiche’  e di ‘liberalismo razionalistico’ il fatto che producano individui eticamente assai elevati, grandi e appassionati idealisti, che lottano contro il pregiudizio e l’ingiustizia. Ma essi non possono sostituire la religione nella mente del popolo, così che quelle idee e quegli ideali razionalistici soccombono ad opera di forze irrazionali». L’uomo greco proverà a colmare un vuoto improvviso con nuove forme – bizzarre ed estreme – di religiosità.

«L’etica eroica è tramontata, il mito si stacca come un mosaico non più tenuto dalla malta, resta il rifugio nell’arte e nella bellezza quasi a voler trattenere nell’eterno una realtà inafferrabile e sfuggente. Il sovvertimento dei valori dell’aristocrazia tradizionale non poteva prescindere da una profonda revisione dell’immaginario religioso popolare, così la messa in discussione della tradizione […] si associava inevitabilmente all’accrescimento di uno iato fra mondo materiale e spirituale». Il conflitto fra tradizione e modernità, dunque, risale almeno all’Atene del V secolo, risiedendo la natura di tale conflitto in uno scontro di visioni, ideali e valori attuale in ogni epoca, e proprio per questo cristallizzato nel mito ciclico di decadenze e rinnovamenti.

Già a quel tempo non mancarono voci autorevoli, se non esplicitamente in difesa della Tradizione, senza dubbio inequivocabilmente critiche verso la democrazia. Fanno scuola il già citato Aristofane, Isocrate, Erodoto, Senofonte, Socrate, l’Anonimo pseudo-Senofonte della Costituzione – opera fondamentale di cui si raccomanda la lettura integrale, insieme al circostanziato commento dell’Autore Colafemmina – e, naturalmente, Platone: rimangono indenni, a distanza di secoli, l’inestimabile valore intellettuale e letterario di quella che potremmo considerare la prima vera articolata teoria politica della storia, espressa nella Politéia, e il mito di Atlantide contenuto in Timeo e Crizia. Sarà lo stesso Platone, nell’Alcibiade maggiore, l’unico a tentare la via della riconciliazione  del pensiero con la tradizione.

Tra i moderni anti-moderni – si perdoni il gioco di parole – il nostro autore riserba, giustamente, un posto d’onore a Yukio Mishima, nel quale ritroviamo intatti tutti i tópoi della lotta alla modernità già presenti nell’Atene classica, a partire dall’isegoría, «la licenza nel parlare, camuffata da libertà»; il vacillare dell’aidós, il pudore, nei costumi sessuali, lo porterà a profetizzare che «la nostra si avvia a diventare l’epoca della cosiddetta neutralità».

C’è da dire che qualche altro provocatorio paragone tra la polis dell’Attica e le democrazie moderne si può ben azzardare: i tribunali erano sovraccarichi esattamente come oggi, e come oggi serpeggiava una tendenza al sadismo giustizialista, specie tra le classi meno abbienti, non a caso chiamate a partecipare come “giuria popolare” ai processi pubblici e privati in cambio di un misero compenso, e per tal ragione facilmente corruttibili… Come oggi.

La grande differenza con l’oggi sta, semmai, nella consistenza intellettuale, nella statura politica, nella competenza amministrativa degli esponenti delle élites dominanti (di una fazione o dell’altra, poco importa): «la genialità del programma culturale pericleo mirante a trasformare Atene nella ‘scuola dell’Ellade’ e a scatenare le energie creative» oggi ce la sogniamo…

“Come potrebbe pilotare uno stato, un cittadino che non sa neanche padroneggiare un discorso?”, si domanda retoricamente Euripide nelle Supplici. Già, come può? Davanti ai politicanti del nostro secolo Euripide si caverebbe gli occhi e si taglierebbe lo orecchie. Comprensibilmente.

Attenzione, però: si badi – per carità! – di non calcare troppo la mano con questi Antichi, di non scivolare in parallelismi antistorici: la mentalità antica rimane diversa, distante da quella moderna. Due esempi a caso. Uno, è la differente concezione della pederastia, marginalizzata nella dimensione democratica ateniese, in quanto considerata una «pratica elitaria estranea all’impeto omogeneizzante della democrazia ateniese», costume sentito come fortemente reazionario, riservato alla sfera privata, relegato all’ambito aristocratico, iniziatico, esoterico; mentre oggi lo sdoganamento di qualunque forma di omosessualità con tutte le sue derivazioni (e degenerazioni) appartiene al sentire della massa democratica, progressista, modernista, è ostentato in pubblico, ostinatamente proteso al riconoscimento normativo e istituzionale.

L’altro è il rapporto con xénoi e bárbaroi, gli stranieri. Sappiamo già che a chiunque non avesse genitori ateniesi purosangue erano negati i diritti politici, conseguenza – non causa – del sospetto, anzi dell’ostilità, con cui gli Ateniesi guardavano fuori dai propri confini: gelosi del loro diritto di cittadinanza, essi si sentivano parte di quella comunità esclusiva in cui gli stranieri non erano ben visti; ed anche la xenía, la legge dell’ospitalità, era più un ideale che un dato di fatto: non, quindi, una generica propensione dei greci ad accogliere l’altro, piuttosto – così lontanamente dalla concezione oggi volgarmente invalsa – una forma di mutuo soccorso tra gli aristocratici delle città greche (xénos è infatti, propriamente, l’ospite, lo straniero di origine greca, contrapposto al bárbaros non-greco), che si riconoscono tra loro come affini, “pari”, al di là dell’appartenenza alle singole póleis. C’era, insomma, la forte consapevolezza di una comune identità greca, a cui gli Ateniesi aggiungevano un elemento specifico: il mito dell’autoctonia, cioè la  pretesa di essere da sempre originari della propria terra e di non essere mai stati contaminati da presenze allotrie. E Atene si vantava di codesta purezza etnica, tanto che Platone nel Menesseno può candidamente affermare che “i greci sono puri e senza mescolanza con i barbari”.

Tornando al nostro saggio, per illustrare un quadro più preciso possibile dell’Atene del V secolo, l’Autore si districa egregiamente attraverso storia, filosofia, religione, mito, politica e geopolitica, economia, psicologia, letteratura, musica e arti figurative; e fa bene, perché sono ambiti inevitabilmente interconnessi, in maniera palese per ciò che attiene all’antichità, e in gran misura anche oggi, sebbene si sia un po’ perso di vista il filo rosso che le lega insieme.

Colafemmina indaga tutte queste discipline, conosce la lingua greca e le fonti antiche, tesse una tela che attraversa la Storia: dall’antica Grecia, all’Occidente moderno e contemporaneo, fino ai nostri giorni – forse il passaggio finale, fin all’attualità più recente, è lasciato al buon Lettore, che viene tuttavia accompagnato con la manina e rinfrancato da un invidiabile ottimismo: «La verticalità del miglioramento dell’uomo, la dimensione morale dell’agire individuale e il rapporto col divino, non sono incompatibili con la reale impostazione elitaria di ogni democrazia. Lo sono, piuttosto, con l’ideologia democratica fondata sull’assoluta libertà dell’uomo da ogni passato, da ogni tradizione, da ogni canone estetico o spirituale, fino a renderlo schiavo della sua hýbris»  – per sfociare infine in una riflessione aporetica: «Se davvero la costruzione democratica è un processo che nasce all’interno di élites trasgressive, non occorrerà forse smontare opportunamente la costruzione ideologica che vi si annida e ripristinare una aristocrazia spirituale nelle nostre società in bilico tra anarchia e occhiute tirannidi? Tutto dipende, forse, dalla posizione che il potere definisce per l’uomo in una data epoca. Il nostro nómos sarà quello della terra di Sparta o quello del mare di Atene? O sarà diverso da entrambi?».

Per concludere: di quest’opera si può senz’altro affermare che è un saggio rigoroso, che lascia spazio anche a riflessioni di stringente attualità, come ampiamente osservato. Se da un lato si dà per scontata la conoscenza della storia greca almeno per grandi linee, dall’altro esso può costituire un validissimo strumento di supporto alla storia greca, intesa come disciplina universitaria (non osiamo spingerci fino alle scuole, visto lo stato deteriore in cui versano oggi),  per comprendere a fondo la natura delle istituzioni politiche ateniesi, in relazione a quelle moderne, in ispecie occidentali. L’Autore, se applica il rigore del filologo, la precisione dello storico e l’argutezza del politologo, alleggerisce l’opera nella comprensione del pubblico e ne agevola la lettura grazie a uno stile di scrittura classicheggiante, sì, ma letterario, molto più che piacevole, una delizia per l’occhio del Lettore – se ce n’è rimasto ancora qualcuno – che abbia nostalgia della lingua italiana, della sua bellezza, del polisindeto e di un vocabolario ricercato, data la degenerazione linguistica – orale e scrittoria – a cui assistiamo.

Grazie, Colafemmina: l’ammiriamo per questo prezioso lavoro, per ciò che ha scritto e per come lo ha scritto.

Alessandra Iacono